Il delitto dell’Università: l’assurdo omicidio di Marta Russo
Il ricordo dell’omicidio di Marta Russo è balzato alla cronaca in questi giorni: l’ultima notizia è che Giovanni Scattone tornerà ad insegnare Psicologia in una scuola di Roma. Dopo due processi d’appello e un ricorso in Cassazione, Scattone ha scontato la pena per l’omicidio colposo di Marta Russo, uccisa il 9 maggio del 1997. La Suprema Corte ha deciso da tempo di non applicare la pena accessoria di interdizione all’insegnamento consentendogli di partecipare al concorso a cattedra del 2012, superandolo.
Un precedente c’era stato nel 2011: Scattone aveva accettato una supplenza in Storia e Filosofia al Liceo Cavour di Roma, lo stesso dove aveva studiato Marta Russo. In seguito alle polemiche, l’ex assistente era stato costretto ad abbandonare l’incarico, continuando però ad insegnare in diverse scuole della Capitale.
Ripercorriamo le tappe delle indagini e del processo, che portarono alla condanna degli ex assistenti universitari: Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro.
L’omicidio di Marta Russo e la condanna di Scattone e Ferraro
Era il 9 maggio 1997: Marta Russo, una giovane studentessa di 22 anni, camminava lungo il vialetto dell’Università “La Sapienza” di Roma. Alle 11:35 un proiettile vagante la colpì alla testa. Ricoverata al Policlinico, morì cinque giorni dopo. I suoi organi furono donati perché Marta avrebbe voluto così: lo diceva ai suoi genitori da quando aveva quindici anni.
L’hanno uccisa, un delitto assurdo, qualcuno ha sparato e senza motivo Marta è morta.
Il luogo dell’omicidio divenne subito un altare: fiori, pupazzi, biglietti. Dolore e disperazione lasciarono ben presto spazio a rabbia e sfogo. La paura di un assassino ancora in libertà era inaccettabile e non poteva non coinvolgere i passanti il cui sguardo era diretto verso i finestroni socchiusi e gli angoli bui del posto.
Marta aveva uno splendido rapporto con la sorella, i genitori e un legame sereno con un ragazzo che frequentava da anni. Non si drogava e non si occupava di politica. La sua condotta irreprensibile evitò lo sciacallaggio del gossip, pronto a portare a galla i presunti scheletri nell’armadio attraverso illazioni inverosimili e ricostruzioni irrisorie.
La vicenda diventò subito inquietante.
Il proiettile sparato sul viale situato tra le facoltà di Giurisprudenza, Scienze politiche e Scienze statistiche assomiglia così tanto a un’idea assoluta di morte che nessuno può evitare di immedesimarsi nella vittima o nello strazio dei suoi familiari. Il lavoro degli inquirenti divenne da subito difficoltoso, non solo per il terrore che oramai si era diffuso tra gli abitanti romani ma anche perché razionalizzare il tutto e dare un volto al colpevole non era così facile come sembrava.
Le indagini e le piste sbagliate
L’attenzione delle indagini si soffermò inizialmente sulla ragazza che camminava con Marta: Jolanda. Questa era figlia di un dirigente superiore del Ministero di Grazia e Giustizia, ex direttore del carcere di Rebibbia, diventato in quel periodo responsabile degli acquisti per gli istituti penitenziari. Una persona quindi passibile di attenzioni criminali e di possibili ritorsioni. Gli inquirenti tuttavia non approfondirono questa pista, come nemmeno quella della somiglianza di Marta Russo ad un’altra ragazza universitaria, figlia di un imprenditore siciliano messo sotto protezione per essersi ribellato al racket mafioso.
Le indagini cominciarono a prendere una piega sbagliata. Il 9 maggio era anche la data del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. Naturalmente questa coincidenza fu presa in considerazione sia per valutare la possibilità di un atto terroristico, sia per ipotizzare la presenza di agenti in borghese all’interno dell’Università e da cui potrebbe essere accidentalmente partito un colpo.
Ma con il tempo si cominciò a profilare l’idea di un macabro gioco o di un serial killer.
La prima cosa da fare era perquisire i locali da cui poteva essere partito lo sparo. Le forze dell’ordine cominciarono a sigillare i bagni di Statistica, al piano terra, e quelli dell’Istituto di Filosofia del diritto, al primo piano, ma non le aule dell’istituto stesso:per un cecchino poteva essere più comodo chiudersi in bagno.
In quel periodo tra i dipendenti della ditta delle pulizie, la PUL.TRA, c’era qualcuno che aveva l’hobby delle armi giocattolo e modificandole le aveva rese abili allo sparo. Ma anche questa pista fece un buco nell’acqua, l’arma che aveva colpito Marta era una calibro 22, una piccola semiautomatica forse con un silenziatore. Anche se molti testimoni raccontarono di rumori diversi: tonfo sordo per alcuni, sibilo per altri.
Le indagini cominciarono a portare i primi veri risultati. Sulla finestra dell’aula 6 di Filosofia del diritto, non sigillata e al primo piano, vennero rinvenute alcune particelle di bario combinato con antimonio, compatibili con quelle che si sprigionano dall’utilizzo di una pistola.
Indizio che portò gli inquirenti a mettere sotto torchio circa quaranta persone, tra cui il prof. Bruno Romano, direttore del dipartimento. Il 12 giugno il direttore dell’istituto Bruno Romano venne arrestato per poi essere rilasciato una settimana dopo: lo scopo di tale mossa da parte delle forze dell’ordine fu quello di scongiurare silenzi e omertà insiti nell’Università “La Sapienza” in quegli anni.
La confessione di Maria Chiara Lipari
Dai tabulati Telecom emersero due telefonate effettuate la mattina del 9 maggio da quell’istituto. Maria Chiara Lipari, l’assistente del Prof Romano, aveva chiamato suo padre. Sottoposta ad interrogatorio il 21 maggio, la Lipari negò di aver visto qualcuno nell’aula 6 ma ricordava di aver chiamato il padre. Dopo ore e ore di interrogatorio, la Lipari cominciò a ricordare la presenza nell’aula 6 di due figure maschili e una femminile. Quest’ultima venne identificata dalla Lipari come l’impiegata Gabriella Alletto, che lavorava nella segreteria dell’istituto. La Lipari, nei suoi ricordi, aveva visto la figura di Gabriella rannicchiata a terra nella stanza dei fax, tra il fax e la fotocopiatrice.
Il vero colpo di scena ci fu l’8 agosto, tre mesi dopo il fatto. La Lipari disse: “Un’altra immagine che adesso ricordo con precisione è la figura di Salvatore Ferraro all’interno della stanza n.6… Appena sono entrata era rivolto verso di me e, appena mi ha vista, si è voltato di scatto verso la finestra. Era pallido. Subito dopo è uscito dalla stanza…Ho avuto l’impressione che non uscisse solo la persona che mi ha salutato ma due persone. Di questo ora sono certa“.
La confessione di Gabriella Alletto
Tocca a Gabriella Alletto. Dopo aver negato di essere stata in quell’aula, il 14 giugno 1997 cambiò versione: “Ho sentito un tonfo, una specie di colpo sordo e ho avuto la sensazione che si trattasse di uno sparo. Mi sono subito girata verso la finestra ed ho visto Ferraro portarsi la mano sulla fronte in segno di disperazione, mentre Scattone aveva appena rilasciato la tenda che evidentemente aveva spostato un attimo prima. Scattone nella mano destra impugnava una pistola di colore nero, simile a quelle della Polizia. Scattone si è girato verso la scrivania dove era Ferraro e ho avuto la sensazione che mettesse qualcosa dentro la cartella che era sulla scrivania“.
Poco prima della mezzanotte il 14 giugno i Carabinieri arrestano gli assistenti universitari Giovanni Scattone, Salvatore Ferraro e l’usciere Francesco Liparota, con l’accusa di omicidio colposo e concorso in omicidio.
Liparota venne scarcerato qualche giorno dopo ammettendo di aver visto Ferraro e Scattone nel momento dello sparo. Subito dopo la scarcerazione Liparota ritrattò tutto. Nella sua cella venne trovato un biglietto in cui affermava di essere stato costretto a ritrattare tutto sotto minaccia.
Il processo e la condanna a Scattone, Ferraro e Liparota
Il delitto di Marta Russo sembrava risolto. Il processo divenne mediatico e gli italiani si divisero tra innocentisti e colpevolisti. Gli indagati vennero subito colpevolizzati. Li danneggiava il fatto di essere due studiosi di diritto, quindi capaci di nascondere l’arma del delitto e di sapersi difendere. Emerse però anche il fatto che Scattone e Ferraro erano due persone normali con la passione per il diritto. Due persone perbene di fronte a testimonianze contraddittorie e prove discutibili erano difficili da incolpare, anche se i loro alibi vacillavano da tutte le parti.
L’accusa puntò al bersaglio grosso: omicidio volontario, anche se durante il processo divenne più plausibile la convinzione che il colpo partì per sbaglio, omicidio colposo. Scattone puntò l’arma e il colpo partì uccidendo Marta Russo. Ferraro lo aiutò a nascondere la pistola, per questo fu accusato di favoreggiamento. Confessando il tutto Ferraro avrebbe ottenuto la clemenza dell’accusa, ma non lo fece.
Giovanni Scattone emaciato, silenzioso e gelido, Salvatore Ferraro, logorroico e primo della classe, vennero condannati in primo grado dalla Corte d’Assise, malgrado i periti dissero di non essere certi che lo sparo fosse partito dall’aula 6, il primo a sette anni di omicidio, il secondo a quattro anni per favoreggiamento. Furono assolti gli altri quattro imputati.
In appello le condanne vennero alzate a otto anni per Scattone e sei per Ferraro. In Cassazione il procuratore generale chiese l’annullamento e la Suprema Corte lo accolse. Nell’ottobre del 2002 il secondo processo d’appello portò a sei anni di condanna a Scattore e quattro anni e sei mesi a Ferraro, due anni e due mesi a Liparota.
Nel dicembre del 2003 la Cassazione confermò la sentenza di secondo grado, riducendo le pene a cinque anni e quattro mesi a Scattone, quattro anni e due mesi a Ferraro, assolvendo Liparota. La parte civile e l’accusa si ritennero soddisfatte non per l’entità delle pene ma per il riconoscimento della colpevolezza dei due imputati.
A Marta Russo è stata intitolata un’associazione che si occupa della donazione di organi. Inoltre l’Università le ha conferito una laurea alla memoria.