Felice Gimondi: il mito del ciclismo italiano
I ricordi dell’estate, inutile negarlo, sono sempre i più belli; quelli delle estati da bambino poi, sono insuperabili: mesi interi trascorsi senza nessun pensiero, in completa leggerezza, con la sola preoccupazione di sbrigarsi a raggiungere il campetto prima degli altri per non trovarlo occupato, oppure se si stava al mare, di cercare il posto giusto, nel bel mezzo degli ombrelloni piantati a macchia di leopardo, i teli adagiati sull’arenile e qualche mucchietto di legnetti misti a cartacce e ossi di pesca che i soliti “inurbani” allora come ora decidevano di abbandonare sulla sabbia, per “costruire” la pista.
Selezionato l’appezzamento adatto bisognava poi ingaggiare un “volontario” disposto a riempirsi il costume di sabbia e rischiare qualche brutta sorpresa qualora gli incivili di cui sopra avessero optato di lasciare in terra anche i frammenti di una bottiglia di birra, consumata magari la notte prima durante un falò. Di solito il malcapitato era il più piccolo della compagnia (anche perché il più leggero) che cercava con il suo “sacrificio” di inserirsi nel gruppetto dei grandi.
Una volta preso per le gambe, poi, lo si trascinava col sedere a terra cercando di creare il circuito più bello e complicato possibile, magari con l’8 e la curva parabolica (alla quale si dedicavano i più bravi nel calcolare pendenze e traiettorie…).
Quando tutto era pronto la “corsa” poteva iniziare e si sceglievano le biglie; erano di plastica, di varie dimensioni, con una metà trasparente e l’altra colorata. Dalla parte trasparente si scorgeva la figura di un ciclista del quale l’usura della biglia, col tempo, rendeva sempre più incerta l’identificazione. Uno dei più ambiti e ricercati, sebbene quando ci giocavo io avesse appena smesso di correre o fosse sul punto di farlo, era un tipo dal viso magro e un po’ serioso, con la maglia celeste ed una scritta, “Bianchi”, in bella evidenza; quel ciclista, quel viso scavato e concentrato, era uno dei più grandi corridori che l’Italia abbia mai avuto; quel ciclista era Felice Gimondi.
Indice
Felice Gimondi: il mito del ciclismo italiano
Gli esordi nel ciclismo
Gimondi nasce a Sedrina, in provincia di Bergamo, il 29 settembre del 1942; figlio di Mosè, un postino che vive e lavora in bicicletta, Felice apprende da lui e dalla madre il piacere per il mezzo a due ruote che comincia ad utilizzare con continuità anche per dare una mano a casa; dopo una serie di lavoretti come garzone viene infatti assunto come aiuto portalettere dal Comune di Sedrina.
Comincia a gareggiare nel ciclismo nel 1959, da allievo, e nel 1960 ottiene la sua prima vittoria nella Bergamo-Celana. Nel 1962 passa tra di dilettanti e si mette subito in evidenza vincendo sedici corse in tre stagioni. La più importante, il Tour de l’Avenir, gli vale l’entrata alla Salvarani anche se inizialmente non lascia il suo posto al Comune.
Gli inizi sono molto positivi perché il nostro arriva secondo alla Freccia Vallone e terzo al Giro d’Italia del 1965 vinto dal capitano della sua squadra Vittorio Adorni.
Nel mese di Luglio di quello stesso anno si corre il Tour de France, la “Grande Boucle”, e Felice viene convocato all’ultimo momento in sostituzione dell’infortunato Barbini, con lo scopo di aiutare Adorni a fare l’accoppiata Giro-Tour.
Il bergamasco capisce che può essere la sua grande occasione e parte subito bene; vince la terza tappa con arrivo a Rouen ed indossa la maglia gialla! Pronto a mettersi da parte per fare strada al suo capitano, viene invece investito dalla responsabilità di portare a termine una grande impresa, a seguito dell’infortunio e conseguente ritiro di Adorni; Felice è fortissimo in montagna, resiste agli attacchi di Raymond Poulidor sul Mont Ventoux, vince due prove a cronometro, quella di Mont Revard e quella finale di Parigi, e conclude clamorosamente al comando il suo primo Tour!
Le vittorie e i duelli con Eddy Merckx
A questo punto capisce di poter fare del ciclismo il suo lavoro e lascia il posto di portalettere a Sedrina; il 1966 è un altro anno importante per Gimondi che inizia a vincere le grandi classiche, confermandosi come uno dei giovani ciclisti emergenti e dimostrando che la vittoria in Francia non era stata effimera; fa sue nell’ordine la Parigi-Roubaix, la Parigi-Beuxelles, la Coppa Agostoni, la Coppa Placci ed il Giro di Lombardia! In quest’ultimo trionfa in volata su tre grandi dell’epoca, Anquetil, Poulidor e soprattutto Eddy Merckx che di li a poco diventerà “il Cannibale” e sarà il più acerrimo e quasi imbattibile rivale di Gimondi.
Nel 1967 arriva la prima vittoria al Giro d’Italia conquistata soprattutto grazie all’impresa compiuta nella terz’ultima tappa (con il Tonale, l’Aprica ed arrivo a Tirano) quando stacca di 4’09’’ la maglia rosa Anquetil prendendosi il primato. Al Tour invece arriva soltanto settimo soprattutto a causa di problemi intestinali che lo frenano sui Pirenei mentre era in lotta con i migliori.
Nel 1968 fa sua la Vuelta di Spagna e diventa il secondo ciclista al mondo, e primo italiano, ad aggiudicarsi le tre gare a tappe più importanti e prestigiose. Al Giro arriva terzo a 9’ circa da Merckx.
Si rifà l’anno successivo, trionfando in patria anche grazie alla squalifica del belga, trovato positivo all’antidoping all’arrivo della tappa di Savona.
In questa occasione Gimondi, particolarmente rispettoso del valore degli avversari, riconoscendo di aver vinto soprattutto a causa delle sfortune del rivale, al momento della premiazione rifiuta di indossare la maglia rosa!
Al Tour però il “cannibale” è imprendibile e Felice chiude al quarto posto. La stagione è comunque positiva e si conclude con le vittorie Al Giro di Romagna (che gli vale anche il titolo italiano), il Giro dell’Appennino, il Grand Prix des Nations ed il Trofeo Baracchi.
Dal 1970 a 1972 Gimondi subisce l’esplosione sempre più prorompente di Merckx e degli altri corridori belgi che lo lasciano praticamente a secco di vittorie importanti; si aggiudica comunque il Giro dell’Appennino e con esso il titolo di campione d’Italia. E’ in questo periodo che nasce nei suoi confronti, specie da parte dei suoi detrattori ai quali non piace il suo stile di corsa, l’appellativo di “eterno secondo” certamente non lusinghiero e nemmeno veritiero, considerando la carriera complessiva del corridore lombardo.
Nel 1973 passa alla squadra che fu anche di Fausto Coppi, la Bianchi – Campagnolo e si aggiudica a Barcellona il campionato del mondo su strada superando allo sprint il belga Freddy Maertens e naturalmente Eddy Merckx, grande favorito per la vittoria finale, al termine di una faticosissima corsa di 145 km percorsi sul circuito del Montjuic che lo vide protagonista di una fuga entusiasmante condotta con altri otto ciclisti (tra i quali, oltre ai tre citati, l’olandese Zoetemelk, gli spagnoli Ocana e Perurena e l’altro italiano Battaglin). Gimondi aveva studiato lungamente il percorso ed in particolare gli ultimi tre minuti della competizione; piegando il suo istinto al ragionamento ed al tatticismo, si piazza alle spalle di Merckx ed appena il “cannibale” lancia la volata lo scarta e se lo lascia alle spalle. Il belga a quel punto cede di schianto lasciando via libera al trionfo mondiale dell’arguto bergamasco.
Nello stesso anno vince anche il Giro di Lombardia arrivando secondo al traguardo ma giovandosi di un’altra squalifica per doping del solito Merckx.
Nel 1974 s’impone nella Milano – Sanremo (con Merckx assente) mentre al Tour de France del 1975 è lui a cadere nelle maglie dell’antidoping, subendo una penalizzazione di 10’ in classifica ed una pesante multa.
Il 1976 lo vede trionfare per l’ultima volta al Giro d’Italia finendo davanti ai più giovani Francesco Moser e Johan De Muynck mentre Merckx, avviato al tramonto, arriva soltanto ottavo. Nelle 14 edizioni della più importante corsa a tappe italiana Gimondi totalizza in tutto 24 “maglie rosa” e finisce nove volte sul podio, record ancora non eguagliato.
L’ultima grande vittoria per il ciclista di Sedrina arriva di nuovo in Belgio con la conquista della sua seconda Parigi-Bruxelles.
Nella sua ultima apparizione al Giro d’Italia, nel 1978, Gimondi arriva undicesimo ma contribuisce in modo determinante alla vittoria del suo compagno di squadra ed ex rivale De Muynck.
L’anno dopo chiude la sua carriera da professionista con un palmares ricco di ben 141 corse vinte ed undici partecipazioni ai campionati del mondo professionisti.
Il ritiro dal mondo del ciclismo
Ciclista molto tattico e tecnico, Gimondi era senza dubbio meno potente ed esplosivo di Merckx, grande scalatore, più metodico e guardingo rispetto al rivale ed in grado di leggere le gare nella maniera più corretta e perspicace, riuscendo spesso ad individuare l’attimo propizio per sferrare l’attacco decisivo nelle tappe più importanti e determinati delle competizioni. Il grande giornalista Gianni Brera lo ribattezzò Felix de Mondi e Nuvola Rossa.
Dopo il ritiro rimase nel mondo del ciclismo come direttore sportivo della Gewiss-Bianchi nel 1988, e successivamente, nel 2000, come presidente della Mercatone Uno-Albacom, la squadra di Marco Pantani.
Ha svolto anche la professione di assicuratore e titolare dell’Agenzia Assicurazioni Milano; nonché responsabile dell’attività sportiva e consulente del reparto corse per la Bianchi.
Dal 1996 si corre in suo onore, nella provincia di Bergamo, la Granfondo internazionale Felice Gimondi, patrocinata dalla Bianchi.
È tuttora uno dei sette corridori ad aver vinto la tripla corona, corrispondente ai tre grandi tornei d’Europa: Tour de France, Giro d’Italiae Vuelta spagnola. Tre le sue medaglie mondiali: bronzo nel 1970 a Leicester, argento nel 1971 a Mendrisio ed oro nel 1973 al Montjuic (Barcellona).
Alcuni cantanti hanno dedicato brani a Gimondi ripercorrendone le imprese, in particolare ricordiamo Enrico Ruggeri, con “Gimondi e il cannibale“, ed Elio e le Storie Tese con “Sono Felice“.
Gimondi non fu un personaggio ma un “anti personaggio”; un ciclista e prima ancora un uomo dedito alla fatica e ad ottenere attraverso di essa le sue vittorie; uno che sapeva anche accettare le sconfitte e la superiorità dei sui avversari, in primis Eddy Merckx, che poi però riusciva a battere proprio attraverso la consapevolezza delle altrui forze e proprie debolezze. Gimondi è stato forse l’anello di congiunzione tra il ciclismo eroico dei tempi di Bartali e Coppi e quello più moderno e perciò meno coinvolgente di Moser e Saronni (per restare ai ciclisti italiani) e proprio per questo amato ed ammirato trasversalmente da tutti gli appassionati di questo sport antico e nobile troppo spesso negli ultimi anni infangato da persone ed “atleti” poco puliti e perciò spoetizzanti.
Le frasi più famose di Gimondi
«Mi sento un privilegiato . Sono un uomo corretto che ha avuto la fortuna di scegliere il suo lavoro».
«A casa, non c’è niente. Nessuno, entrando, deve capire che ho fatto il corridore. I ricordi li ho raccolti nella torre. Uno spazio che è solo mio».
Su Merckx: «In bici ci scannavamo ma alla sera guardavamo la partita insieme, con un boccale di birra in mano. Però, ho impiegato due anni per accettare il fatto che era più forte di me. Eddy mi aveva battuto in una cronometro al Giro di Catalogna del ’68. Fino a quel giorno, nelle crono, avevo sempre vinto io. Ho trascorso la notte a interrogarmi, a ripassare ogni metro della gara. Eppure ero andato forte. La risposta l’ho trovata solo dopo due tormentatissime stagioni».
«Se non ci fosse stato Merckx sicuramente avrei vinto di più. Ma, oggi, sono molto più contento che sia andata così. Mi sento più gratificato. Poi, sarei diventato così popolare se non ci fosse stato lui?».
Sul doping: «Abbiamo sicuramente le nostre colpe, ma la vicenda è diventata una buffonata. Il ciclismo è l’anello più debole, economicamente parlando. Perché nessuno ha mai fatto controlli a sorpresa prima di una partita del Milan o dell’Inter?». Anche lui era caduto nella rete dell’antidoping. «Alla fine del Giro del ’68, ero terzo a 8’ da Merckx impossibile recuperarli. Perché avrei dovuto prendere qualcosa? Due medici dimostrarono che ero pulito».
«Dietro all’atleta c’è l’uomo, e dietro all’uomo c’è la famiglia. Ho cercato di consolarlo e quel giorno non indossai la maglia rosa. Ho ancora dubbi su quella vicenda».
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