Berlusconi lascia il Milan: fine di un’era indimenticabile
29 trofei conquistati in 31 anni (dal febbraio del 1986); dagli elicotteri al closing, dal turnover a “Chinatown”, da Galliani a mister Li; è finita ieri, definitivamente, l’era Berlusconi, non solo un Presidente, un dirigente sportivo, un proprietario di una società di calcio.
Silvio Berlusconi è stato molto di più e non soltanto per il Milan, ma per tutto il movimento calcistico italiano ed internazionale. Esisterà sempre un “prima ed un dopo” Berlusconi, nel bene e nel male.
Grande innovatore, inventore di un nuovo modo di concepire il calcio, dal suo apparire sulle scene inserito, veicolato, fagocitato ed infine inghiottito dal business; il calcio delle tv, delle sponsorizzazioni, dei miliardi (di lire) “regalati” a destra e a manca per costruire rose sontuose; dei calciatori acquistati anche o soltanto per sottrarli alla concorrenza, nonostante la sua squadra fosse già piena zeppa di campioni, belli, bravi e sempre sorridenti, possibilmente a favore delle (sue) telecamere.
Ma Berlusconi è stato anche un grande scopritore di talenti, il mentore di Sacchi e Capello, “inventati” da lui come allenatori di successo; uno coraggiosamente scovato in provincia dopo un match di Coppa Italia, l’altro strappato ad una carriera dietro la scrivania e scaraventato in mezzo al campo a far correre i “suoi” ragazzi.
Certo il suo Milan non ha preso solo Campioni, ogni tanto un Borghi sopravvalutato o un Rivaldo ormai spompato hanno pascolato nei verdi prati di Milanello, ma crediamo che nessun tifoso rossonero, neanche il più critico, magari perché di diversa fede politica (ma questa è un’altra Storia…), possa oggi essere felice per l’addio del Cavaliere, o quantomeno non fatichi, almeno per un attimo, a trattenere l’emozione, quella lacrimuccia, un po’ furtiva, che scappa di tanto in tanto quando la memoria torna indietro, e ti riporta al 4-0 al Barcellona nella finale di di Champions ad Atene, o al 5-0 che annichilì il Real Madrid; al gol di Evani nella notte dell’Intercontinentale, alla rivincita col Liverpool targata Filippo Inzaghi, alle magie di Van Basten, cigno di cristallo, alle “martellate rasta” di Gullit, agli scatti di Shevchenko o alle bordate di Papin; senza dimenticare la difesa italiana, quel Tassotti – Costacurta – Baresi – Maldini che suonava come le antiche cantilene dei nostri padri; e poi Nesta, e poi Kakà…
Negli ultimi anni la musica era cambiata, affievolita da una potenza economica sfiorita, ormai non più all’altezza della concorrenza, fuori e dentro gli italici confini, da sempre troppo stretti all’uomo del Biscione, proteso verso la conquista successiva, l’impresa più audace; sempre a rincorrere quell’idea, quell’utopia, quella promessa fatta il primo giorno e comunque mantenuta di “far diventare il Milan il club più forte al mondo”.
Per un lungo periodo c’è riuscito; ai cinesi, ora, l’arduo compito di non farlo troppo rimpiangere.